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La Risâlat al-anwâr di Ibn 'Arabî - I

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La Risâlat al-anwâr di Ibn 'Arabî I - Cenni bibliografici

Tale epistola, di cui non sembra siano noti molti manoscritti, è edita in lingua araba nella raccolta di brevi trattati “Rasâ’il Ibn al-‘Arabî” pubblicata a Hyderabad nel 1948 [basato sul Ms. Asafiyah n. 376, completato nel 997 H. (1589)]; l’edizione dell’epistola in questione è purtroppo, come informa A. Jacovella, “funestata da molti errori di stampa”. Più accurata, anche se non impeccabile, è invece l’edizione del 1986 a cura di ‘Abd al-Rahman Hasan Mahmud, nella raccolta “Rasâ’il Sayyidi Muhyi al-Din Ibn ‘Arabî”. Altre edizioni a stampa sono quelle edite al Cairo nel 1332 H. (1913/1914) e a Damasco nel 1329 H. (che include anche il commento di al-Jîlî).

La prima traduzione in lingua occidentale, anche se non integrale, è quella di Asin Palacios nel ben noto “El Islam Cristianizado” che risale al 1931. La successiva di cui abbiamo notizia apparve, a firma di Maridort-Laiba, sul numero 274 di “Études traditionnelles” (mars 1949) con il titolo di “Les étapes divines dans la voie du perfectionnement du règne humain”, per poi essere tradotta in italiano da P. Nutrizio prima nel numero 24 della “Rivista di Studi Tradizionali” (luglio-settembre 1967) con il titolo di “Le tappe divine nella via di perfezionamento del regno umano” ed in seguito ripresa nel numero 82-83 (gennaio-dicembre 1996) con il titolo leggermente diverso di “Le tappe divine nella via del perfezionamento del regno umano”: quella della Rivista di Studi Tradizionali può pertanto considerarsi, a pieno titolo, la prima traduzione italiana del testo akbariano in questione.

La traduzione in inglese del 1981 di R.T. Harris intitolata “Journey to the Lord of Power” (a cui molti si rifanno), non è, a causa dei precedenti spagnolo e francese, la “prima in assoluto” (come invece afferma Jacovella nella prefazione del suo lavoro). Tale traduzione, integrale, pur non essendo corredata da note e lasciando molto a desiderare sul piano dell’esattezza, presenta un certo interesse in quanto riporta diversi passi del commento di al-Jîlî (intitolato “Al-Isfâr ‘an Risâlat al-anwâr fî mâ yatajallâ li ahl al-dhikr min al-asrâr” e conosciuto anche con il nome di “Sharh al-khalwa al-mutlaqa”) all’epistola in questione, il cui interesse consiste nell’essere in gran parte costituito da citazioni delle Futûhât che si riferiscono ai brani della suddetta Risâla. Un’altra traduzione, che risale al 1987, è quella francese intitolata “Voyage vers le Maitre de la Puissance” per la quale valgono le stesse osservazioni fatte per quella di Harris, essendo appunto basata su quest’ultima.

Jacovella pubblica, a sua volta, una bella traduzione del testo akbariano nel 1997 presso le edizioni Voland, con il titolo “L’Epistola dei Settanta Veli” rifacendosi al celebre Hadîth: “Dio ha settanta veli di Luce e di Tenebra. Se fossero rimossi, la Gloria del Suo volto brucerebbe ogni cosa percepita dalla vista delle sue creature”. Jacovella si basa sui testi editi sia del 1948 che del 1986, fornendo una versione più estesa di quella di Nutrizio-Maridort, e resa a tratti in maniera differente.

Ma di questa epistola, e qui terminiamo con le indicazioni bibliografiche, esiste anche un’interessante traduzione commentata nel miliare “Le Sceau de saints” di Chodkiewicz, la cui prima edizione è del 1986, e del quale esiste una recente traduzione italiana (2009) a cura di G. Mongini per i tipi della Morcelliana. Tale traduzione, arricchita di interessanti note e spiegazioni tratte dalle Futûhât (in particolare dal capitolo 367 che tratta del Mi’râj e dal capitolo 167), costituisce il decimo capitolo intitolato “La double échelle” [Chodkiewciz si basa sui manoscritti di Istanbul: Beyazid, Veliyuddin 1686, ff. 21B-26 (667 H. / 1269) copia letta davanti a Qûnawî; e Suleymaniyye, Yahya Eff. 2415 del 1293 H. (tardivo, ma vocalizzato)].

In linea generale si può dire che l'epistola merita senza indugio la lettura, tenendo però conto delle sue peculiarità. Anzitutto non è un trattato scritto per tutti, ma composto su richiesta di un discepolo di Ibn ‘Arabî ed a lui destinato; non è, inoltre, un'opera rivolta ad un novizio, ma ad un iniziato che possieda già un qualche grado di realizzazione effettiva. Il fatto che vi si tratti di una “ascesa” verso il Signore, fa suggerire a Chodkiewicz che il destinatario di tali suggerimenti dovesse trovarsi nel punto in cui l’ascesa agli stati superiori è possibile. Anche Maridort pare suggerire qualcosa di analogo nella sua nota sul tawakkul; e se è vero che il seguito dell’epistola sembra dare una certa verità alla sua osservazione, è anche vero che nel lessico tecnico del tasawwuf, l’utilizzo del termine tawakkul per designare questo punto di ascesa, non sembra così immediato.

Comunque sia, il lettore interessato troverà gratificante la lettura di tale testo tradizionale; ci permettiamo soltanto di segnalare, come già uno dei traduttori prima di noi, che il tentativo di mettere in pratica i consigli esposti da Ibn ’Arabî nella sua Risâla senza la previa autorizzazione di un Maestro e senza la sua guida, o, peggio ancora, al di fuori della forma tradizionale in vista della quale tali consigli sono stati concepiti, è assolutamente sconsigliabile. L’attenta riflessione sul testo, invece, non potrà che apportare benefici a chi la affronterà con le corrette disposizioni.

(segue)

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